Muratori: impariamo a conoscerlo meglio. Se guardiamo ai programmi scolastici e alla pubblicistica, critica e divulgativa, a questo cambio di millennio, troviamo che Lodovico Antonio Muratori sta tutt’altro che sui gradini più alti dell’odierno podio culturale. Male antico e connaturato ad un modo di vedere la letteratura che ne privilegia l’aspetto estetico, creativo, in un certo senso ‘ludico’: come vedremo più avanti, già un contemporaneo di Muratori si doleva che riscuotesse più onori e denari il poeta e librettista Metastasio, commentando: “che confronto, che paragone è questo? dov’è il decoro, dov’è la giustizia?”. Male accentuatosi in età postromantica e ancora più, da noi, crociana, quando erudizione, dottrina, sapienza sono state staccate, come ‘non poesia’, dalla produzione cosiddetta ‘ispirata’, e non è più concepibile una storia letteraria che comprenda di tutto, come quella monumentale del modenese adottivo Tiraboschi. Tornando a noi, è vero che nell’ultimo trentennio ha ripreso vigore una produzione scientifica consistente nella pubblicazione di inediti, specialmente epistolari, e nello studio delle sue opere; ma è altrettanto vero che certe riproposizioni editoriali di opere muratoriane, e perfino certi volonterosi approcci scolastici, hanno peccato di superficialità quando non sono addirittura arrivati a falsificare forma e sostanza dell’insegnamento del vignolese. Come capolavoro in negativo di questa tendenza citiamo la ristampa parziale de Il Cristianesimo felice nelle missioni de’ padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai, a cura di P. Collo (Palermo, Sellerio, 1985: in realtà, riduzione della sola parte I, uscita a Venezia da Pasquali nel 1743, ma privata qui delle tre lunghe relazioni del modenese Gaetano Cattaneo che avevano dato a Muratori lo spunto per l'opera, oltre che dell'intera seconda parte uscita nel 1749), dove l'efficace - e, per i tempi, rivoluzionaria - prosa di Muratori, evidentemente ritenuta troppo difficile per il lettore d’oggi, è letteralmente sconciata in favore di una lingua di tipo giornalistico, oltre tutto piena di ‘traduzioni’ errate.
Cominciamo allora col precisare il nome del nostro uomo, Lodovico appunto, e non Ludovico come si dice comunemente (prendendo equivoco dalla forma latina Ludovicus con cui sono firmate le grandi pubblicazioni sul Medio Evo). Il secondo nome, Antonio, fu aggiunto dal padre Francesco (o almeno così ne scrisse il figlio) per non confondere il suo Lodovico (nato il 21 ottobre 1672) con un altro Lodovico Muratori coetaneo e compaesano. È una leggenda quella che si ripete tuttora qualche volta, anche sullo stimolo di una vecchia iconografia edificante, e che riproduciamo con le parole della Storia d’Italia di Indro Montanelli (e Roberto Gervaso):
A Vignola presso Modena c’è ancora, ridotta a scuola, la casa in cui egli nacque nel 1672 da una modesta famiglia contadina. Il padre non poté mandarlo agli studi, ma il ragazzo se li fece per conto suo seguendo, aggrappato alla grata della finestra, le lezioni di un maestro che alla fine si commosse di tanta perseveranza e lo accolse gratis tra i suoi allievi. A tredici anni entrò in seminario e chiese i voti. Lo facevano un po’ tutti in un secolo in cui la Chiesa rappresentava l’unica industria remuneratrice.
In realtà papà Francesco, oltre a un podere, allevava bachi da seta, possedeva un magazzino di prodotti vari e un’azienda di lavorazione del rame, dunque non incontrò difficoltà per far studiare Lodovico; semmai, mostrò qualche resistenza ad inviarlo a Modena presso le scuole gesuitiche, il che avvenne solo nel 1685 col dichiarato intento di farne un dottore in legge, come scriverà lo stesso Muratori nella sua mirabile autobiografia composta nel 1721 sotto forma di lettera a Giovanni Artico, conte di Porcìa. Ma le remore paterne nascevano dal timore che il figlio (unico maschio, accanto a cinque donne), fatalmente instradato anche alla carriera ecclesiastica, privasse la famiglia Muratori di una progenie che perpetuasse il cognome. Dalla lettera al Porcìa apprendiamo pure che fin da fanciullo Muratori si era distinto come scolaro modello:
I premi, i privilegi ed onori saggiamente proposti anche all’età fanciullesca e l’emulazione attizzata dai giudiciosi maestri nelle pubbliche scuole (vantaggio che manca alle private) mi faceva camminar forte negli studi e, se posso dirlo, mi riusciva di far più degli altri e di ottener più distinzione e premi che gli altri; e da tutto ciò proveniva poscia in me quel diletto che rende agevole e anche dolce ogni fatica.
E dal nipote biografo Soli sappiamo che dalla prima giovinezza Muratori “prese […] il costume di far buon uso del tempo, e di non dormire più di sette ore, anche nelle notti più lunghe”, così da poter leggere e studiare. Umanissima la testimonianza dello stesso Muratori ormai sessantenne, contenuta in una lettera del 1732 al bergamasco Francesco Brembati, che gli aveva chiesto un parere su un celebre predicatore che all’epoca si trovava a Modena:
Bisogna ch’io ingenuamente le confessi la mia disgrazia. Perché patisco da molto tempo delle fiere vigilie e poi, se voglio presentarmi a prediche, accademie e simili funzioni, sedendo, subito truovo il sonno che mi fugge in letto: però a fine di non iscandalezzare, mi astengo dal pubblico. E se pur voglio andare qualche volta alla predica, mi conviene stare in piedi: cosa greve a chi è già greve per gli anni.
Iscrittosi all’università di Modena, Muratori a meno di vent’anni si laureò in filosofia, a ventidue in legge; nel 1695 divenne sacerdote, con la prospettiva di una brillante carriera legale-diplomatica nella corte estense o – come gli veniva prospettato - in quella papale di Roma. “Bei pensieri invero, anzi bei castelli in aria”, commenta Muratori, che preferiva seguire le sue inclinazioni, e nel tempo lasciato libero dalle occupazioni avvocatesche, “dalle scuole e dalle conferenze co’ maestri”, oltre a studiare per proprio conto il greco, si diede alle “lettere amene” e alla poesia, frequentando le dotte conversazioni in casa del marchese Giovanni Rangoni: qui ritrovò il coetaneo vignolese Pietro Antonio Bernardoni (che poco dopo sarebbe stato assunto come poeta “cesareo” alla corte imperiale di Vienna) e conobbe un’altra autorità in fatto di “buon gusto” letterario, il bolognese Giovan Gioseffo Orsi da poco trasferitosi a Modena, che a sua volta lo introdusse nei circoli dell’Arcadia e della cultura scientifica della sua città d’origine. Ancor più decisivo fu l’incontro col benedettino parmense Benedetto Bacchini, allora abate del convento di S. Pietro in Modena, bibliotecario estense e redattore principe di una delle più apprezzate riviste erudite del tempo: questi lo avviò alla storia, principalmente della Chiesa, infondendo all’allievo quei metodi di controllo delle fonti e critica razionalistica che gli erano venuti dai confratelli francesi di S. Mauro (Saint Germain des Près) e di Montecassino. “Il suo scarpello – confessava ancora Muratori al Porcìa – servì non poco a formare quel poco ch’io sono”: e dal magistero bacchiniano uscì pure l’altro grande dotto del primo Settecento (e spesso rivale di Muratori, nella caccia a sempre nuove scoperte erudite), il veronese Scipione Maffei. Altro maestro ideale fu lo storico modenese cinquecentesco Carlo Sigonio, le cui grandi opere diedero da principio al giovane Muratori un senso di sgomento, ma presto lo stimolarono all’emulazione:
scorgendo […] ch’egli quell’opera [un commento a Livio] dovea averla composta in età d’anni ventidue, mi cadde il cuore per terra e restai troppo mal soddisfatto di me stesso all’osservare tanta erudizione in lui sì giovane e me appena all’abicì di que’ medesimi studi, né mai mi sarei figurato di potere avvicinarmi un dì ad esempio sì fatto. Ma conobbi alle pruove che l’uomo, se la natura gli è alquanto liberale e non teme fatica, può far di gran cose.
La fama precoce. Nello stesso 1695, la grande occasione: l’impiego offertogli, da parte della famiglia milanese dei Borromeo, presso la grande biblioteca Ambrosiana, ricca di inediti e di stampe preziose. Muratori accettò, sentendosi “invitato al mio giuoco”, e sfruttò intensamente i cinque anni trascorsi là, non solo portando a termine le sue prime pubblicazioni ufficiali di àmbito tardolatino e medievale (Anecdota [cioè ‘Inediti’] latina, due volumi nel 1697-1698, cui ne seguirono altri due nel 1713, intervallati nel 1709 da uno di Anecdota graeca), ma anche partecipando alla vita culturale di Milano, e in particolare frequentando il poeta Carlo Maria Maggi (l’inventore del personaggio di Meneghino, e tra i protagonisti, nella letteratura “alta” , dell’abbandono dell’estetica barocca in favore di una concezione più razionalista). Nei colloqui con Maggi (morto nel 1699, e subito celebrato da Muratori con una Vita e una vasta antologia poetica) il vignolese maturò il suo ideale estetico in favore di una riforma della cultura e della poesia italiana, il che gli avrebbe suggerito, nel decennio successivo, una serie di opere dalla vasta eco in tutta Europa.
Richiamato a Modena nel 1700 dal duca Rinaldo I d’Este, tenne fino alla morte l’incarico di archivista e bibliotecario ducale, anche e soprattutto (nelle intenzioni del suo sovrano) allo scopo di reperire e sfruttare documenti che appoggiassero le mire espansionistiche o di recupero di territori perduti: bruciava ancora la cosiddetta “devoluzione”, ossia la riassegnazione alla Santa Sede dei territori di Ferrara e Comacchio, avvenuta poco più di un secolo prima (1598). Nel frattempo, grazie a carte antiche estensi Muratori fornì, alla sua Casa e a quella germanica di Brunswick-Hannover (destinata, di lì a poco, a ereditare la corona d’Inghilterra con Giorgio I), la prova che il matrimonio del duca Rinaldo, avvenuto nel 1695, con la principessa Carlotta Felicita di Brunswick, era stato una specie di ricongiungimento di due rami dallo stesso ceppo: quello originato da Alberto Azzo II, due dei cui figli, Folco e Guelfo, erano divenuti rispettivamente signore d’Este, Rovigo ecc. l’uno, duca di Baviera l’altro. Ciò diede lo spunto per la prima grande opera storica di Muratori, le Antichità estensi ed italiane (uscite molto più tardi della loro elaborazione, in due volumi tra il 1717 e il ’40), redatte fino a un certo punto in mutuo rapporto con lo storico ufficiale della casa Hannover, il grande filosofo Gottfried Wilhelm Leibniz. Questa collaborazione si fece vera sinergia operativa dal 1708, quando la rioccupazione militare, ordinata dall’imperatore Giuseppe I, di Comacchio (già feudo estense fino al 1598, e del quale l’impero non aveva mai cessato di rivendicare il possesso, investendone gli Este anche nel Seicento) sollecitò un approfondito vaglio delle carte antiche modenesi da parte dei due storici, che orchestrarono insieme una campagna internazionale di pubblicazioni per mostrare con la forza dei documenti non solo l’appartenenza di Comacchio all’impero, ma più in generale l’infondatezza di tante pretese territoriali pontificie. La pubblicistica culminò nella muratoriana Piena esposizione dei diritti imperiali ed estensi sopra la città di Comacchio del 1712 (ben 530 pagine in folio, tradotte in francese a Utrecht nel 1713), che fu definita da Vittorio Amedeo II di Savoia la “migliore e più forte batteria contro ai preti”; mentre, dietro le quinte, Muratori si impegnò anche a suggerire, di concerto con Leibniz, ad altri scrittori di parte modenese e imperiale gli argomenti da trattare, ed a correggerne gli elaborati decidendone o meno la pubblicazione.
Dunque, da circostanze tutto sommato contingenti (Carlotta Felicita morì già nel 1710; il possesso di Comacchio fu restituito alla Santa Sede nel 1725 per un intricato gioco di mutue concessioni tra grandi d’Europa) nacquero conseguenze ben più durature sotto il profilo culturale: il nuovo metodo storiografico muratoriano (influenzato dalla riflessione sulla filosofia della storia di Leibniz) e l’immane prodotto delle Antichità Estensi prima, dei Rerum Italicarum Scriptores e delle Antiquitates Italicae poi, infine degli Annali d’Italia. Ciò insomma che consacrò Muratori come uomo-guida del rinnovamento storiografico-intellettuale del Settecento, e ancor oggi ce lo consegna come fondamento della ricerca storica sul Medioevo.
Maestro europeo di critica estetica. Nel frattempo, altri guai politici (a cominciare dall’occupazione di Modena, a opera dei francesi durante la guerra di successione spagnola, tra il 1702 e il 1707, col conseguente esilio del Duca, e la necessità di mettere in sicurezza lontano dalla capitale le carte d’archivio) erano stati sfruttati per il meglio da Muratori (rimasto a Modena, con funzioni quasi da segretario di Stato), secondo un principio poi enunciato nella lettera al Porcìa:
Non sapendo io stare colle mani alla cintola presi a trattare della Perfetta poesia italiana, opera in cui spesi non poco studio e molte meditazioni, e che dipoi colse buona fortuna. Credo io che l’erudito abbia da aver sempre in capo varie vedute e varie fila per le mani. Se non può per qualche ostacolo far questa tela, ne lavori un’altra; se non può fabbricar gran palagi, si metta a qualche ameno giardino, adattandosi al luogo, al tempo e alle congiunture e mirando che non gli fugga di mano il tempo che è cosa preziosa.
Ovvero, per citare pochi versi indirizzati alle Muse dal Muratori diciottenne, e che non dispiacquero a Carducci:
Mai non insulti al vostro amabil coro
di stanchezza o di tedio ombra nemica:
non la quiete, ma il mutar fatica
alla fatica sia solo ristoro.
Insomma, in mancanza di documenti antichi Muratori prese a trattare di questioni letterarie d’attualità, sviluppando i temi discussi con Maggi e gli altri amici del periodo milanese: come riportare il “buon gusto” nella poesia, “nelle scienze e nelle arti”, promuovendo il superamento degli ampollosi modi barocchi col rifarsi, per esempio, al Petrarca: la Perfetta poesia italiana, corredata da un’ampia antologia di poeti esemplari, fu stampata nel 1706; nel 1711 usciranno, con un ritardo pluriennale rispetto alla composizione del 1707, le Rime di Francesco Petrarca coi commenti di vari, compreso Muratori. Il quale invocava la conversione delle tante accademie esistenti dalla moda delle vacue declamazioni ad un più moderno impegno culturale: tra le opere in proposito basti citare i Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia, del 1703, e le Riflessioni sopra il buon gusto, due volumi stampati tra il 1708 e il ’15. Fu tale il successo di queste opere (soprattutto quelle di poetica) che ancora per molti decenni avvenire, quando Muratori aveva ormai abbandonato queste tematiche per volgersi decisamente alla storia (e a molto altro), continuarono a mandargli proprie poesie letterati da tutta Italia e perfino dalla Germania, dall’oscuro canonico di S. Giovanni in Persiceto Brunone Bruni al medico di Meldola Camillo Brunori, fino al giovane bavarese Johann Sigmund Schelhorn (che verseggiava in italiano) o al poco più che adolescente siciliano Rainaldo Maria Alessi (che ancora nel 1745-6 - dunque, un quarantennio dopo la Perfetta poesia - spedì a Modena diciannove “sonettucciacci”), nella speranza – spesso esaudita - di suggerimenti e correzioni.
E a proposito di poesia, va ricordato che Muratori stesso sbeffeggiò la partenza dei francesi da Modena, nel febbraio 1707, con un vigoroso sonetto in dialetto modenese, nel quale deprecava le passate razzie e gli abusi sessuali degli occupanti (da cui era venuto il contagio del mal franzes), e tirava in ballo alla fine i tre santi patroni di Modena: S. Geminiano, nella cui ricorrenza era cominciato l’assedio finale alla guarnigione francese asserragliata in Cittadella; S. Omobono, protettore dei sarti raffigurato con le forbici in mano, e qui invitato a tagliare “’l raìs [..] a sti be’ zii”, le radici a questi bei gigli di Francia; e san Contardo d’Este, santo pellegrino, che già avrebbe dato ai francesi il suo bordone “perch’i fazzen bon viaz”.
La religione umanitaria. Intanto, Muratori apriva altri due fronti d’intervento culturale: quello religioso, che lo vide schierato per tutta la vita a favore di un ragionevole svecchiamento e razionalizzazione del culto (come in Italia si sarebbe ottenuto soltanto all’altezza del concilio Vaticano II), attraverso opere quali De ingeniorum moderatione in religionis negotio (stampato nel 1714, ma a Parigi, per gli ostacoli della censura ecclesiastica italiana), e più tardi De superstitione vitanda sive censura voti sanguinarii (Venezia 1740), Della regolata divozion de’ cristiani (Venezia 1747), per le quali si è parlato di “cattolicesimo galileiano” e “conciliazione drammatica di fede e ragione”; con l’aggiunta di un forte impulso verso una fede operosa che mettesse in primo piano la carità: ecco la Carità cristiana in quanto essa è amore del prossimo (Modena 1723), scaturita dalle esperienze di prevosto in una delle parrocchie più povere della città, quella di S. Maria della Pomposa (retta dal 1716 al ’33) dove Muratori operò prodigandosi per i più poveri, in favore dei quali fondò la “Compagnia della carità”, sorretta in buona parte da versamenti dello stesso parroco (a cominciare dalla vendita di una collana d’oro ricevuta dall’imperatore Carlo VI).
L’impegno religioso, se in Italia incontrò ostacoli (qualche censore del Sant’Uffizio si scandalizzò perché Muratori metteva le pratiche di culto in secondo piano rispetto alle concrete azioni di carità), ricevette invece adesioni entusiastiche a nord delle Alpi, sia tra i cattolici progressisti (come i benedettini austriaci e bavaresi) sia addirittura tra i luterani tedeschi: merita più che una semplice menzione il rapporto tra Muratori e il pastore e teologo di Augsburg Jacob Brucker, in corrispondenza col vignolese perlomeno dagli anni Quaranta, e che dal canto suo inserì Muratori nel secondo volume (1742) della monumentale Pinacotheca scriptorum nostra aetate literis illustrium (dieci volumi usciti tra il 1741 e il 1755 ad Augsburg, anche in versione tedesca). Tra gli italiani, solo Maffei ebbe analogo onore nello stesso tomo; nessun italiano era compreso nel primo, e bisognerà aspettare il quarto, del 1745, per vederne altri. La biobibliografia bruckeriana (che ne seguiva un’altra del 1739, nel vol. XXII del Grosses Vollständiges Universal-Lexikon di J. H. Zedler) risultò la più ampia in circolazione, e si risolse in un elogio incondizionato verso quest’uomo dotato di “giudizio accurato e solido, letture vaste e quasi senza fine, ingegno fertile, operosità indefessa e incredibile, animo retto e privo di pregiudizi”. L’interesse di Brucker verso Muratori non fu solo erudito, ma anche umano e religioso, come appare nelle sue nove lettere pubblicate nel 2003, che affrontano per esempio i temi del dogmatismo gesuita e del possibile riavvicinamento tra le chiese cristiane: dopo vari progetti di traduzione tedesca delle opere religiose muratoriane (che si realizzarono solo poco più tardi, ad opera d’altri) Brucker, al quale Muratori aveva vagheggiato di poter dedicare un nuovo trattato teologico (il De naevis in religionem incurrentibus, sul culto dei santi: la cosa non poté essere fatta per l’opposizione delle gerarchie romane, e il libro uscì nel 1749 con dedica al vescovo cattolico di Augsburg), caldeggiò l’estremo tentativo, in cui Muratori venne – troppo tardi – coinvolto, di una conciliazione tra le chiese cattolica e protestante.
E dalla religione, specie se intesa in senso attivo, consacrata al bene del prossimo, non era stato lungo in Muratori il passo verso l’impegno politico: opera di pubblica utilità può dirsi ad esempio il trattato Del governo della peste e delle maniere di guardarsene (del 1714, ma ristampato parecchie volte fino al 1832: e se ne varrà Manzoni affrontando la problematica degli untori), che Muratori divise in tre parti riguardanti il governo politico, medico ed ecclesiastico, inserendo in ognuna tutti i suggerimenti che venivano dalla scienza e dall’esperienza d’allora, con un eclettismo che non rifiutava a priori nessun rimedio proposto, ma che poneva ogni cosa al vaglio del buon senso. Muratori prese seriamente a cuore quella che chiamò la “pubblica felicità”, oltre mezzo secolo prima che la costituzione americana includesse la “ricerca della felicità” tra i diritti dell’uomo. E l’Archivio Muratoriano della Biblioteca Estense conserva, insieme con un abbozzo della sua opera uscita nel 1749 (su cui si veda qui oltre), altri scritti pratici su piccole e grandi questioni concrete: metodi per migliorare la coltivazione della canapa e del gelso, o una accorata lettera al duca Rinaldo, del 5 agosto 1724, per una riduzione dei dazi doganali che favorisse il commercio della bavella consentendo un lavoro “onesto” alle “povere fanciulle” e in generale alle famiglie bisognose.
Innovatore in politica e religione. La premura verso chi campava solo con la fatica delle proprie braccia continuò fino agli ultimi anni di vita di Muratori, che nel 1748 intraprese un’aspra battaglia all’interno della Chiesa per la “diminuzione delle feste”: le troppe festività infrasettimanali, col divieto conseguente di qualsiasi lavoro manuale, toglievano possibilità di guadagno ai salariati, che per di più si inducevano a spendere il tempo libero in osterie, giochi d’azzardo e altri vizi. Chiedendo alle autorità religiose e civili di concordare la soppressione di feste non motivate da particolari ragioni di culto, Muratori voleva da un lato liberare il cattolicesimo da retaggi di superstizioni antiche, ma dall’altro lato, soprattutto, contribuire al miglioramento delle condizioni di vita delle classi meno agiate. Malgrado forti opposizioni del clero più retrivo (smorzate però dall’atteggiamento favorevole del papa Benedetto XIV, bolognese e vecchio amico tanto da essere definito “papa muratoriano”), il vignolese ebbe, alla fine della sua vita, la consolazione di vedere che in vari stati (come il Granducato di Toscana, nei cui quadri dirigenti stava il suo allievo ideale Giovanni Domenico Brichieri Colombi) il suo invito veniva accolto.
Per concludere con l’attività politica di Muratori (che non fu la sua più importante, ma ebbe comunque peso notevole), occorre citare il dotto ed appassionato libro Dei difetti della giurisprudenza (1742), dedicato allo stesso papa Benedetto, con l’auspicio che da lui partisse una riforma capace di mettere ordine nell’immensa congerie di leggi e pareri legali che (come vedrà poi Manzoni quando metterà di fronte Renzo ed Azzeccagarbugli) si ritorcevano sempre sulla povera gente. Il trattato sviluppava un abbozzo preparato nel 1726 per l'imperatore Carlo VI, e sarà alla base della riforma – forse - più importante realizzata dalla dinastia estense nel suo ultimo secolo di potere a Modena: il Codice Estense del 1771, materialmente steso da un lontano discepolo del già morto Muratori, Bartolomeo Valdrighi.
Ma soprattutto La pubblica felicità, oggetto de’ buoni prìncipi, trattato uscito (quasi clandestinamente, ancora per ragioni di censura) a Venezia e a Lucca nel 1749, poi tradotto in francese, tedesco e spagnolo. L’opera uscì al termine di un’altra stagione politicamente travagliata per Modena (che solo col gennaio 1749, dopo la pace di Aquisgrana, fu rimessa totalmente nelle mani del duca estense) e va letta anche alla luce di quegli eventi: morto nel 1740 l’imperatore Carlo VI, la successione della figlia Maria Teresa venne messa in discussione. Una fortissima coalizione, animata dalla nascente Prussia di Federico II, dalla Francia, dalla Spagna, dalla Sassonia con relative dipendenze, riconobbe come imperatore Carlo VII re di Baviera, lasciando all’Austria il debole appoggio della lontana Inghilterra, dei Paesi Bassi e del Piemonte: fu un’altra guerra, combattuta anche in Italia, e nella quale Modena assunse un ambiguo atteggiamento di neutralità, lasciando trapelare le sue simpatie antiaustriache. Ma i potenziali alleati non difesero Modena, che nel 1742 fu occupata dagli austro-piemontesi: Francesco III andò in esilio presso Padova, dove pose la sua residenza per quasi sette anni, militando nel contempo tra le file dell’esercito spagnolo. Fu anche un disastro finanziario, tappato con la sciagurata vendita per centomila zecchini d’oro delle cento tele più prestigiose della Pinacoteca Estense ad Augusto III re di Sassonia e Polonia, a cui Muratori – come vedremo - nel 1738 avrebbe dedicato il primo volume delle Antiquitates Italicae Medii Aevi (proseguendo poi con la dedica dei cinque volumi successivi ai cinque figli del re).
Nella grande opera muratoriana sulla “pubblica felicità” si mettono sul tappeto i problemi che la nuova cultura illuministica stava proponendo ai sovrani dell’ancien régime: scuole, giustizia, salute pubblica, agricoltura, commercio, dazi, controllo dei prezzi e del debito statale, tasse (pagine molto critiche sono scritte contro quella vera tassa sui poveri costituita dal lotto di stato), assistenza ai bisognosi, mantenimento della pace: tutti discussi con una moderazione che lascia però chiaramente vedere l’esigenza di un profondo mutamento.
Il grande storico moderno Franco Venturi ha definito l’opera “l’espressione più matura di tutto il pensiero riformatore in Italia durante la guerra di successione austriaca”: più in là, una volta venuta meno la fiducia nella capacità delle monarchie di riformarsi da sé, resterà solo lo spazio per la Rivoluzione francese. E se Muratori (oltre tutto, precettore dell’erede al trono estense, il futuro duca Francesco III, per il quale nel 1713 aveva scritto i Rudimenti di filosofia morale, poi sviluppati nella Filosofia morale esposta e proposta ai giovani, del ’35) non arriva a immaginare tanto, si compiace però di descrivere, con largo consenso, l’esperimento di comunismo cristiano fatto nella lontana America: ecco uscire Il cristianesimo felice nelle missioni de’ padri della compagnia di Gesù nel Paraguai (1743, con un supplemento nel 1749, e traduzioni in inglese, francese e tedesco), opera in cui Muratori riversa i suoi ideali evangelici e umanitari (che gli facevano vedere nelle Riduzioni del Paraguay la reincarnazione della società perfetta già attuata dai primi cristiani e di nuovo vagheggiata dagli utopisti del suo tempo) senza trascurare pittoresche descrizioni (ricavate da documenti di prima mano) di natura e costumi in quelle lontane contrade.
La conversione alla storia medievale. Quanto abbiamo detto (e il molto che ci sarebbe ancora da dire, ad esempio sugli interventi in campo filosofico e teologico: della Filosofia morale, per esempio, lo storico Giorgio Falco, nell’introduzione all’antologia ricciardiana del 1964 ha scritto che “la dottrina della disuguaglianza e della rassegnazione viene […] animata da un vivo senso di umanità e operosità civile, da uno schietto giudizio sui difetti della società contemporanea, dalle moderne parole di giustizia, uguaglianza, libertà”) verrebbe già a delineare il ritratto di un protagonista di primo piano nella storia culturale dell’Italia settecentesca, con appendici – come si è visto – nell’età più recente; e invece è soltanto antipasto e contorno al piatto monumentale, al prodotto principale ed imperituro dell’elaborazione muratoriana: il rinnovamento, o più precisamente la fondazione della moderna storiografia basata sulle fonti, ed in particolare la scoperta del Medio Evo.
Confessa Muratori al Porcìa (e lo fa nel 1721, quando è soltanto in preparazione, ma non ancora sotto i torchi, il primo tomo dell’opera destinata a rivoluzionare la metodologia storiografica, i Rerum Italicarum Scriptores):
in mia gioventù altro io non aveva in testa che antichità greche e romane. […] Per lo contrario mi facevano male agli occhi le fatture de’ secoli susseguenti, la loro storia, i loro scrittori, riti, costumi e imbrogli, trovando io dappertutto del meschino, del barbaro (e infatti non ne manca), e parendo a me di camminare solamente per orride montagne, per miserabili tuguri e in mezzo a un popolo di fiere. […] Mi rido ora di me stesso. Anche quel barbaro, anche quell’orrido (me ne avvidi poi tardi) ha il suo bello e il suo dilettevole.
Ammette (come abbiamo detto qui sopra, ricordando il matrimonio che ricongiunse le case di Este e Hannover) che i suoi primi studi medievali avvennero “per ordine del serenissimo signor Duca mio padrone, e insieme del potentissimo re della Gran Brettagna Giorgio I”, e lo portarono a tre anni di ricerche, dal 1714 al ’16, presso “quanti archivi potei in varie parti d’Italia”, dove poté affinare la perizia già conseguita tra la biblioteca Ambrosiana e l’Estense. E aggiunge, con divertito compiacimento:
si faceva i segni di croce chi, non pratico di tali studi, mi mirava intendere e copiare speditamente gli scomunicati caratteri degli antichi documenti. Ma ogni erudito, purché vi si metta con un po’ di pazienza e con rendersi familiari le formole e lo stile barbaro de’ contratti e diplomi di que’ secoli, gran copia de’ quali è già stampata, non penerà ad arrivarvi.
Muratori continua descrivendo lo svilupparsi, tra “quelle fatiche deliziose, ma insieme scabrose e non poche”, del suo progetto storiografico, che dalla storia dinastica approdò alla ricostruzione di un millennio di vita italiana (dall’anno 500 al 1500, secondo la periodizzazione muratoriana che non è molto diversa dall’odierna) fino a quel momento quasi ignorato. Non si potrebbe dire meglio che con le sue parole, anche a smentire l’accusa di Montanelli, secondo cui “come tutti gli italiani del Settecento, anche lui soffriva di ‘incomunicabilità’ perché scriveva male”, “anche la sua prosa risulta goffa, artefatta e involuta” (con maggior cognizione di causa, Falco elogiava invece nel Muratori storico “la semplicità del dettato, dove spunta fuori ogni poco l’uomo Muratori con il suofare furbesco e popolano, con la sua arguzia un po’ grossa e scoperta, con la sua ricca aneddotica, colorita e un tantino spregiudicata”: Opere, p. XXXI). Certo non è Manzoni (più giovane di oltre un secolo), ma vale la pena di segnalare che ancora alla fine dell’Ottocento la prosa di Muratori venne additata quale possibile modello di lingua italiana unitaria, in contrasto con quella manzoniana sentita come troppo ossequiosa della fiorentinità.
L’impegno di visitar tanti archivi portò a me la comodità di poter fare un’altra messe, cioè di raccogliere gran copia d’antichi documenti inediti, diplomi d’imperadori, re e principi, fondazioni di monasteri, donazioni, testamenti, bolle di papi e vescovi, e altre simili memorie inedite de’ secoli oscuri, secoli per conseguente bisognosi più degli altri d’essere illustrati. Ecco la ragione per cui mi venne in pensiero di trattare ancora delle Antichità italiane, siccome promisi nella prima parte delle Estensi, e dovea questo argomento occupare la parte seconda. Diedi anche principio all’opera, e mia intenzione era di esporre i costumi e riti dell’Italia, dopo la declinazione del romano imperio sino al 1500, disegno forse troppo vasto per le mie forze, giacché vi si dovrebbe trattare dei diversi e vari governi di que’ tempi, delle leggi, de’ giudizi, de’ contratti, delle forme del guerreggiare, de’ vescovati, delle badie, delle donazioni pie, degli spedali, delle repubbliche, delle fazioni, delle monete, dei feudi, degli allodi e simili altre innumerabili notizie, che tutte insieme formassero un’intera dipintura dell’Italia d’allora, in tante cose diversa da quella d’oggidì. Ma per lo più non suda un architetto a disegnare sopra un pezzo di carta grossa un gran palagio: il punto sta a farlo saltar su per l’aria co’ suoi muraglioni, marmi ed ornamenti veri. E così appunto è avvenuto a me. L’idea non poteva essere più magnifica, e il coraggio non mi mancava; ma io ho da litigar troppo spesso con la mia fievole testa e salute: un po’ di scirocco mi rende inabile fino a non potere scrivere una lettera; nel verno mi gelano i pensieri in capo, oltre ad altri incomodi che vanno spesso ricordando a me chi io sono, e voglia Dio che mel ricordino con frutto. Insomma bisognò calar le vele e non so ora se mi resterà tempo, voglia e forza da ritornarvi più.
A parte la professione di umiltà e la denuncia dei tanti malesseri (che non gli impediranno di vivere in piena lucidità intellettuale fin oltre i 77 anni), Muratori delinea con precisione il piano di lavoro per il prossimo ventennio, una volta esaurita l’altra “grandiosa impresa”, ormai imminente, di “unire in un corpo, che abbraccerà più tomi, tutte le storie d’Italia composte dall’anno 500 dell’era volgare sino al 1500, sì stampate come inedite” (cioè i Rerum Italicarum Scriptores, per i quali era stata fondata a Milano la “Società Palatina” che aveva messo in piedi un imponente lavoro di “sottoscrizioni” - oggi diremmo di vendite in abbonamento - a coprire le ingenti spese di stampa). È ormai un dato acquisito della critica la costatazione che il procedere del Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae, in corso a Leida in Olanda (1704-1725) sotto la direzione, prima di Johann Georg Graevius, poi di Pieter Burmann, abbia indotto Muratori (a ciò esortato anche da amici come Scipione Maffei e Apostolo Zeno) a ideare e via via precisare il piano dei Rerum Italicarum Scriptores, che avrebbero cominciato a vedere la luce quando in Olanda si stavano pubblicando gli ultimi tomi della raccolta. Un altro modello, più concentrato sul Medio Evo, era quello tedesco di Johann Georg Eckhart (successore di Leibniz nel ruolo di storico ufficiale della casa di Hannover), il Corpus historicum Medii Aevi, uscito in due tomi a Lipsia nello stesso 1723 in cui esordirono i RIS, e servito da base per l’edizione di alcune cronache; ma il carteggio muratoriano dimostra soprattutto i legami che unirono l’impresa italiana a quella leidense. Sono in particolare utili gli scambi epistolari, pubblicati da pochi anni, tra Muratori e l’editore Pieter van der Aa, indi con l’ultimo curatore, lo storico e filologo classico Burmann, iniziatisi nel 1720: da essi risulta che i fiamminghi tentarono di associare Muratori alla propria impresa, e in effetti Muratori, al principio del carteggio con Burmann, riferendosi anche a una precedente missiva di Aa (che appunto chiedeva a Muratori contributi per il Thesaurus), suggerì al collega di inserire le proprie Antichità Estensi, in una versione latina da approntare. L’impossibilità della cosa diede a Muratori maggior convinzione a proseguire per la sua strada, mettendo in moto tutte le sue conoscenze alla caccia di antiche cronache.
Nello stesso 1738 in cui il vignolese riuscirà a far stampare l’ultimo volume dei Rerum Italicarum Scriptores, la stessa tipografia milanese di Filippo Argelati darà alla luce, sempre per conto della Società Palatina, il primo dei sei volumi delle Antiquitates Italicae Medii Aevi, che fin dal titolo indicano chiaramente il contenuto dei 75 capitoli (ovvero “dissertazioni”), fedele allo schema tracciato da Muratori per il Porcìa diciassette anni prima: dissertationes de moribus, ritibus, religione, regimine, magistratibus, legibus, studiis litterarum, artibus, lingua, militia, nummis, principibus, libertate, servitute, foederibus, aliisque faciem et morem Italici populi referentibus post declinationem Romani Imperii ad annum usque MD. L’ultimo volume di questa vera enciclopedia medievale uscì nel 1742; più tardi, Muratori si convinse a darne una traduzione e riduzione italiana, che col titolo di Dissertazioni sopra le antichità italiane uscì a Venezia nel 1751, un anno dopo la sua morte, a cura del nipote Soli.
La raccolta delle cronache antiche, avvio della storiografia moderna. Ma conviene tornare al 1723, al momento in cui Muratori, dopo una massiccia campagna di richieste inoltrate a tutti gli eruditi d’Italia perché scovassero e gli inviassero cronache antiche, dopo aver valutato poi consistenza e affidabilità delle centinaia di manoscritti che gli erano stati sottoposti, e dopo aver superato innumerevoli ostacoli, economici ed umani, poté finalmente vedere stampato il primo tomo della sua raccolta di storici. Il libro portava in fronte un ritratto a tutta pagina dell’imperatore Carlo VI, cui quest’opera era dedicata allo stesso modo della contemporanea Carità cristiana:
ma per completare il quadro di quei mesi convulsi, occorre dire che nel marzo di quello stesso 1723 Muratori indirizzò all’imperatore, per conto del duca Rinaldo, una nobile e coraggiosa lettera latina, nella quale il fedele vassallo accusava il sovrano di ingratitudine e, insomma, di tradimento: “Dopo un lungo esame della causa, e dopo che gli evidentissimi diritti dell’Impero e miei sono stati dimostrati - fa scrivere Muratori al duca - speravo che Comacchio mi sarebbe stata assegnata”; invece “si fa più forte la voce che il possesso della città sarà ceduto alla curia romana, senza nessuna sentenza, senza che io sia stato nemmeno ascoltato e anzi, ciò che è peggio, nemmeno preso in considerazione”; “mi sia permesso dire, clementissimo Cesare: questi sono i frutti della mia attività così bene spesa finora per restituire e confermare i diritti del Sacro Romano Impero?”.
Vediamo insomma un Muratori a schiena dritta, anche nel difendere cause ormai disperate, e quantunque ciò potesse metterlo in posizione scomoda di fronte al suo attuale interesse della diffusione della grande opera storica in fasce; la curia pontificia infatti (passata in quell’anno da Innocenzo XIII a Benedetto XIII, entrambi romani), al cui interno erano forti i risentimenti per l’impegno ‘ghibellino’ di Muratori contro le pretese di potere temporale della Chiesa, si mosse per impedire la circolazione dei Rerum, fece trasferire l’inquisitore di Milano e revocare l’imprimatur concesso con troppa larghezza. Ma l’imperatore, appellato d’urgenza, salvò la continuazione dell’opera: il 5 gennaio1724, Pietro Ercole Gherardi (in quel momento all’ambasciata modenese di Vienna, al seguito del principe estense Giovanni Federico), collaboratore e amico di Muratori, gli scrisse che Carlo VI in una pubblica udienza al presidente del senato milanese (e socio palatino) Carlo Pertusati, aveva dichiarato testualmente “ch’ei tanto più volentieri imprendeva a proteggere quell’opera, perché conosceva benissimo che Roma cercava di vendicarsi contro del Muratori difensore delle ragioni di Comacchio e del gius dell’Impero”.
Si è detto dei problemi con la censura, ancora fortissimi nell’Italia dell’epoca, al punto che alcuni letterati italiani e olandesi – come Scipione Maffei e Hendrik Brenkmann – avevano progettato la costituzione di una società nei Paesi Bassi che godesse di maggior libertà editoriale; e ancora a ridosso dell’uscita dei RIS in Italia, il tipografo Argelati suggeriva di indicare nel frontespizio il falso luogo di stampa di Amsterdam. Per superare gli ostacoli della censura ecclesiastica, Muratori in un primo tempo pensava di rimandare la pubblicazione delle cronache più scabrose (specie quelle concernenti la vita privata di certi papi) ad una “appendice separata” e senza nome d’autore, di modo che la sua eventuale proibizione (data per certa) non potesse colpire anche gli altri volumi già stampati; poi si optò per una pubblicazione più sollecita, ma ‘purgata’: ad esempio con tagli (non sempre dichiarati) ai diari romani di Stefano Infessura o di Teodorico di Niehm (già editi nel Corpus Historicum di Eckhart): operazione filologicamente poco corretta, ma quasi obbligatoria a quei tempi; che tuttavia non riuscì a evitare altri dissapori con la Chiesa e lo stesso papa “muratoriano” Benedetto XIV, salito al trono pontificio nel 1740. Questi, seppur difendendolo di fronte a una richiesta di proibizione avanzata dall’Inquisizione spagnola, gli precisò privatamente, in una lettera del settembre 1748:
Il contenuto nelle opere che qui non è piaciuto, né ella poteva mai lusingarsi che fosse per piacere, risguarda la giurisdizione temporale del Romano Pontefice ne’ suoi stati, camminandosi qui con diversi princìpi, e non dandosi per veri alcuni supposti ed altresì alcuni fatti. Ed ella resti pure sicura che se le dette cose fossero state inserite da qualchedun altro nelle sue opere, non si sarebbe lasciato da queste Congregazioni di proibirlo, il che non si è fatto essendo pubblico l’affetto che portiamo a lei, ed essendo notoria la stima che unitamente col rimanente del mondo facciamo del di lei valore.
E ci si metteva anche la censura di tipo politico, perfino ad opera di uno stato ‘laico’, il regno di Savoia, la cui occupazione di Milano riuscì a ritardare di vari anni il volume XXIII, già composto: scriveva Muratori al suo corrispondente bergamasco Francesco Brembati nell’agosto 1736:
Tre soli tomi mancano al compimento del corpo Rerum Italicarum. Uno d’essi è stampato da gran tempo, ma finché i Savoiardi, a’ quali non piaceva una storia ivi compresa, non escano di Milano non potrà venire alla luce. Si lavorava dietro all’altro. E però non andrà molto che sarà terminata quell’impresa.
Si trattava dell’Historia Montisferrati di Benvenuto da S. Giorgio: il volume, che in frontespizio reca l’anno 1733, uscì con una presentazione di Argelati datata 28 settembre 1736.
Il capolavoro: emerso da tante difficoltà e mal remunerato. Si arriva così agli anni delle Antiquitates Italicae Medii Aevi (da molti ritenuto il capolavoro di Muratori), in gran parte già stese dal vignolese entro gli anni Venti, ma che dovettero aspettare il compimento dei RIS per essere stampate e messe in commercio. Non esistevano ancora i diritti d’autore, la vendita per corrispondenza era soggetta ai disguidi del servizio postale d’allora, alle dogane, ai cambiavalute, e quando non incappava in smarrimenti, naufragi e perfino in scorrerie di pirati doveva scontrarsi con la scarsa propensione a pagare di certi clienti: in ogni caso, i guadagni spettavano allo stampatore. Era anche pratica comune degli editori di secondo piano il ristampare (all’insaputa dell’autore stesso) le opere che avevano un mercato e la cui produzione non costasse molto: a Muratori capitò col Governo della peste, i Difetti della giurisprudenza ecc., e non fu possibile nessuna azione di rivalsa. Il modo più praticato per assicurarsi un compenso era quello di dedicare l’opera a un personaggio illustre e, soprattutto, munifico: già si è visto come Muratori abbia puntato, in qualche caso, molto in alto (imperatore, papa, sovrani vari), ed anche per le costosissime Antiquitates la ricerca di un dedicatario eccellente durò a lungo. Finché la scelta cadde – come detto – sul re di Polonia ed elettore di Sassonia Augusto III, conosciuto a Modena nel 1712 in qualità di principe ereditario. Per saggiarne la disponibilità Muratori chiese al suo ex segretario Giuseppe Riva, ora nell’ambasciata modenese a Vienna, di muovere qualche pedina, cominciando dall’altro concittadino presso la corte imperiale, il vescovo (fananese d’origine) Giuliano Sabbatini. Questi riuscì a ottenere l’intercessione del potente gesuita Ignazio Guarini, confessore e predicatore del re tedesco, che accettò la dedica per sé e i propri figli; il primo di essi, il futuro re Federico Cristiano, nel 1739 visitò Modena e conobbe “il famoso Muratori” (cui donò un medaglione d’oro), dicendone nel diario: “è incredibile quanto abbia scritto da solo quest’uomo” (erano i tempi nei quali una visita a Muratori era un obbligo per tutti gli intellettuali che scendevano in Italia, da Montfaucon a Montesquieu). I dettagli da immettere nella dedica del primo, poi degli altri cinque volumi (come le notizie personali su sovrano e figli), vennero in buona parte da Stefano Benedetto Pallavicini da Salò, poeta di corte e librettista d’opera, che Muratori aveva sfiorato negli anni della questione comacchiese, e conosciuto di persona come accompagnatore di Federico Cristiano nel 1739.
Il primo tomo delle Antiquitates fu spedito a Dresda, capitale del regno di Sassonia, nell’aprile 1739, mentre il secondo tomo era in corso di stampa; gli argomenti da esporre nella dedica a Federico Cristiano furono suggeriti da Pallavicini con una lettera a Muratori da Roma del 12 agosto1739:
Fuori d’ogni adulazione, possiede questo signore doti degne d'encomio: una pietà esemplare e un’affabilità che gli guadagna l’animo di chiunque seco parla, e che ben corrisponde al suo grazioso esteriore. Ha genio allo studio, e glielo facilita una felicissima memoria, prova della quale è la franchezza con cui, oltre la lingua materna, parla l’italiano, il franzese e ’l pollacco, intendendo anche a sufficienza il latino.
Queste notizie si ritrovano puntualmente nella dedica a stampa, datata 4 giugno 1740 (sebbene il II tomo porti la data ufficiale del 1739), e nella quale Muratori aggiunge considerazioni personali, come l'incontro diretto avuto col principe a Modena il 21 novembre1739, o la sua ammirazione per le opere d'arte della pinacoteca e della biblioteca Estense. La strada era aperta per dedicare i tomi restanti ai figli minori di Augusto: il III (1740) a Saverio Augusto Alberto (1730-1806),
il IV (1741) a Carlo Cristiano, terzogenito del re (1733-1796, e una cui figlia, sposata a Carlo Emanuele di Savoia-Carignano, sarebbe divenuta madre di Carlo Alberto, re di Sardegna dal 1831 al 1849); il V e il VI (1741-1742, ma in realtà 1743) ai due ultimi nati, Alberto e Clemente, poco più che in fasce.
Ma tardò parecchio Augusto III a compensare Muratori, che per sollecitare il re ripartì dal crocevia di Vienna, dal suo giovane corrispondente ligure Brichieri Colombi (che più tardi, abbiamo visto, diventerà funzionario del Granducato di Toscana assegnato alla casa di Lorena), e dal trentino Giovan Battista Gaspari, che nel 1742-43 giunse dall’Austria alla capitale sassone con una lettera di raccomandazione di Muratori per un impiego di storico a corte. Gaspari, fervente muratoriano ma troppo focoso, e spesso nei guai per le sue intemperanze, non cavò un ragno dal buco né per sé né per il modenese, col quale si sbrigò in una lettera da Vienna del 15 dicembre1744 grondante disprezzo per Guarini, che aveva invece compensato lautamente Metastasio per due libretti d’opera: “Dunque, diceva io, pel Metastasio ve ne sono, e pel Muratori no? che confronto, che paragone è questo? dov’è il decoro, dov’è la giustizia?”.
Andò relativamente meglio con l’intermediazione di Brichieri, grazie a cui Muratori accostò due cardinali, entrambi - in successione - nunzi apostolici in Polonia, Camillo Paolucci e Alberico Archinto; per tenersi buono Guarini, gli fece consegnare una copia dell’opera appena uscita Il cristianesimo felice nelle missioni de’ padri della compagnia di Gesù nel Paraguai (1743), presentata come un omaggio ai gesuiti dopo le tante battaglie teologiche sull’Immacolata Concezione (dogma non ancora proclamato e a cui Muratori rimaneva contrario). Ma il re sassone tenne sulle spine Muratori fino all’aprile 1748, quando Archinto comunicò da Dresda lo stanziamento di 300 talleri e tre medaglie d’oro. Non molto più che un rimborso, come si lamentò Muratori in una lettera a Brichieri del 22 maggio: ma erano gli incerti del poco remunerativo mestiere di storico.
Un ritratto insuperato della vita nel Medio Evo. Questa cronaca spicciola dei contrattempi cui Muratori dovette soggiacere dà ancor più valore (ammesso che ciò sia possibile) ai contenuti delle Antiquitates, dove – per dirla col Carducci partecipante e animatore delle celebrazioni a Vignola e Modena per il centenario del1872 - “v’è di tutto, di tutto, di tutto”. Come precisa Forti nel cappello introduttivo alla scelta dal trattato nell’antologia di Ricciardi 1964, “per ciascun argomento delle settantacinque dissertazioni possediamo oggi studi più compiuti e più approfonditi, ma in tutti questi è possibile riconoscere la lontana matrice muratoriana. Il Muratori mette a profitto la lezione dei maurini e la collaborazione col Leibniz, muovendosi con una sicurezza metodica pari alle più alte del suo tempo: sotto l’aspetto paleografico e diplomatico, basti dire che di circa tremila diplomi e quasi altrettante carte private, di oltre settecento epistole papali citate nell’opera, pochissime vedono mutato oggi il criterio di attendibilità dato da lui”.
Il Medio Evo è accuratamente delimitato a partire dalle invasioni barbariche (con una rivalutazione dell’età longobarda, che si connette a una certa simpatia di fondo verso il mondo germanico) e dalla frantumazione dell’impero romano nei vari stati nazionali, con la successiva restaurazione del Sacro Romano Impero (ma il giudizio sui carolingi è piuttosto limitativo, a differenza di quanto farà Manzoni nell’Adelchi, opera che pure sarà creata in dipendenza della ricostruzione muratoriana), con le connesse procedure delle elezioni di re e imperatori, e l’assegnazione dei feudi. L’attenzione punta poi sull’Italia e le sue varie autorità civili e religiose, il funzionamento degli apparati di vertice (leggi, monete, tasse, tribunali, esercito), con una lunga sezione dedicata a comuni e signorie. Interessantissime le dissertazioni che descrivono la vita della gente comune, in privato e in pubblico: demografia, evoluzione del costume, ruolo della donna, abbigliamento, mestieri, mercati, duelli, “giudizi di Dio”, l’istituzione della cavalleria, giochi e sport, arte, letteratura e lingua (ci sono pagine dotate di accuratissima documentazione sull’origine della lingua italiana dal latino tardo, e sull’origine di nomi e cognomi). Soprattutto gli ultimi due tomi si occupano della religiosità medievale (gerarchia ecclesiastica, abbazie, parrocchie, monasteri, confraternite laiche, culto dei santi, superstizioni), né il Muratori difensore dell’Impero contro la Santa Sede si tira indietro quando deve denunciare le aberrazioni della Chiesa, la cupidigia delle rendite, il potere temporale: cosa che, si è visto, metteva in difficoltà persino il papa amico.
Storico anche dei suoi tempi. Sbrigata questa immane incombenza il vignolese completò il proprio piano storiografico dandosi a un’opera richiestagli – si può dire – da tutta la cultura italiana: estrarre dalle centinaia di cronache, per lo più latine, edite nei RIS, una storia unitaria, in volgare e dunque alla portata di tutti. Inizialmente il progetto riguardava il solito millennio 500-1500, poi fu allargato all’età dell’Impero romano, e così furono nove i tomi degli Annali d’Italia dal principio dell’era volgare sino all’anno 1500, pubblicati nel 1744 dall’editore veneziano Pasquali (ma col falso luogo di stampa “Milano”, ancora per problemi di censura). Poco dopo però, Muratori non seppe resistere a ulteriori appelli e si decise a completare l’opera fino all’età corrente, fino a quella pace di Aquisgrana del 1748 che sembrò porre termine a secoli di guerre e devastazioni. I tre ultimi tomi uscirono presso il medesimo Pasquali nel 1749, e l’opera intera fu immediatamente tradotta in tedesco: perché la storia d’Italia era in realtà storia dell’Europa tutta.
E quella muratoriana non è storia di parte, anche per il ripudio di tutte le interpretazioni finalistiche o provvidenziali care agli storici che l’avevano preceduto: il buon cattolico e l’appassionato italiano Muratori non dissimula i meriti dei Goti e Longobardi, o la sopraffazione e l’avidità di Bizantini e Franchi. A questi ultimi (e segnatamente a Carlo Magno) Muratori dà il merito della ricreata unità europea, ma anche la colpa dell’avallo alle mire territoriali della Chiesa, che riconosce pure dietro la copertura religiosa delle Crociate; mentre non si libera dei ghibellini semplicemente qualificandoli come ‘eretici’. Quanto poi allo scisma protestante, Muratori sa vederne le ragioni nelle gravi colpe morali e nella condotta politica dei Papi, dal Trecento della cattività avignonese al Quattrocento delle lotte tra papi e antipapi e della piaga del nepotismo, fino al trionfo della mondanità nelle corti pontificie del primo Cinquecento. La storia degli ultimi due secoli si anima ulteriormente delle passioni muratoriane (sia pur temperate dai noti problemi di censura, o quanto meno dalla prudenza dell’autore verso chi aveva il potere di impedire la pubblicazione, e da un troppo “caldo zelo di ortodossia” cattolica, per usare le parole di Falco): rileviamo l’appoggio dato agli Asburgo e alla causa dell’impero contro i Borboni e i francesi in genere (ben poco si salva anche del Re Sole Luigi XIV), ed un crescente patriottismo, che si esplica sia nella costante aspirazione alla pace e al benessere dei popoli sia, ad esempio, nel racconto dei moti patriottici genovesi del 1746-’47 (quelli di Balilla), raccontati al pubblico per la prima volta, dopo che lo storico si era procurato relazioni di testimoni locali.
La fine di un’esistenza operosa e feconda. Non si poteva chiedere molto altro a un uomo ormai settantasettenne e soggetto a un fatale declino fisico, e che tuttavia nel 1749 stampò anche la citata Pubblica felicità, la seconda parte del Cristianesimo felice, il De naevis in religionem incurrentibus (difesa del papa Benedetto e della prassi cattolica nella canonizzazione dei santi, seppure con qualche apertura al protestantesimo), e la prima edizione della Tabula alimentaria traianea scoperta nel sito della romana Veleia. La malattia decisiva lo colse appena licenziato l’ultimo trattatello (Dei pregi dell’eloquenza popolare, un’estrema esortazione ai predicatori perché si attenessero alla semplicità espositiva, per rispetto del popolo), e mentre attendeva alla traduzione italiana delle Antiquitates (completata poi dal Gherardi compagno di tanti studi). Ne possiamo seguire il decorso attraverso le lettere (le ultime delle quali, quando Muratori era ormai divenuto cieco – lui che a settant’anni leggeva ancora senza occhiali, come aveva notato Brucker – furono dettate al nipote Soli). La vigilia del Natale 1749 comunicò, con semplicità, al corrispondente napoletano Carlo Antonio Broggia:
Sappia che da molti mesi sono infermo, e finalmente sul principio del presente le vertigini m’han privato della vista d’amendue gli occhi. Poco male, perché già son vicino al sepolcro. Spero che, ciò non ostante, ella mi continuerà il suo stimatissimo amore.
E Broggia, in una lettera che probabilmente Muratori non fece in tempo a ricevere, gli inviò una serie di ricette mediche ad hoc, concludendo con un’esperienza recente:
Quasi due anni fa questo mal d’occhi, eziandio con vertiggini, assalì quasi la metà degli abitanti di Bari in Puglia. Si conobbe provenire da una pessima influenza; e la cosa andò tant’oltre, che molte di quelle persone più comode risolsero di venir a soggiornare qui in Napoli, per iscansar quella sì pessima influenza; e la indovinarono, perché eziandio coloro i quali pativano si ricuperarono. Quindi io stimerei che l’elezzione di un’aria più amena potesse molto contribuire al di lei sollievo.
Intanto, il 20 gennaio 1750 Muratori fece spedire quella che rimase l’ultima sua lettera, all’antico compagno di studi Scipione Maffei, spesso rivale di battaglie erudite (compresa una recentissima sull’edizione della tavola veleiate) , che, accennando a mutui consensi e dissensi, gli aveva rammentato come “questo non ha impedito mai ch’io non v’abbia riputato sempre il primo onore d’Italia”:
Non potevate con più affezione e cordialità farmi sentire il vostro cordoglio per la perdita ch’io ho fatto degli occhi. Ho ben fatta questa perdita, ma ho ricuperata la vita […]. Di miglior guscio siete voi che io; per me poco importa che la finisca in breve. Prego Dio che conservi voi, perché voi siete il campione più vigoroso e coraggioso della letteratura in Italia. Con che, caramente, vi abbraccio.
La morte arrivò tre giorni dopo, con rimpianto unanime di tutta quella che Muratori, quasi mezzo secolo prima (1703), aveva chiamato “repubblica letteraria”, vagheggiando “una lega di tutti i più riguardevoli letterati d’Italia, di qualunque condizione e grado, e professori di qual si voglia arte liberale o scienza, il cui oggetto fosse la riformazione e l’accrescimento d’esse arti e scienze per benefizio della cattolica religione, per gloria dell’Italia, per profitto pubblico e privato”.
Ma le opere e l’insegnamento di Muratori continuarono, e forse accrebbero, il loro influsso negli anni avvenire: se il Carducci del 1872 salutò nella sua scoperta e valorizzazione del Medio Evo “la conversione delle menti italiane dall’adorazione delle repubbliche e delle dittature greche e romane a una libertà nuova”, creatrice in campo letterario “dell’Adelchi e dell’Arnaldo, della Battaglia di Benevento e del Marco Visconti”, cioè della nuova sensibilità romantica e risorgimentale, Giorgio Falco quasi un secolo dopo ha ribadito la perennità del lascito che Muratori affidò alle sue monumentali compilazioni: “quanto più corre il tempo, quanto più avanzano gli studi, tanto più destano meraviglia la nitidezza di certi quadri istituzionali, la modernità nell’impostazione e nella risoluzione di certi problemi, la felicità dell’intuito storico e filologico, la ricchezza inventiva e suggestiva dell’attività storiografica”.